Dal buono lavoro al lavoro buono
Visto che al momento risultano deboli le risposte ai grandi problemi del lavoro, ci si irrigidisce sulle piccole. Soltanto lo 0,23% dei redditi da lavoro privato è costituito da voucher, ma dei voucher se ne parla da mesi, come se la questione fondamentale del lavoro in Italia fosse quella. Vediamo di riassumere la storia per fare una proposta.
Com’è noto i buoni lavoro sono introdotti dalla cosiddetta legge Biagi nel lontano 2003, ma entrano in vigore solo nel 2008. Lo scopo era chiaro: offrire una copertura alle prestazioni temporanee ed occasionali, altrimenti consegnate al nero o, se va bene, al grigio. La legge Biagi delimitava sia gli ambiti di utilizzo – opportunità di assistenza sociale a favore di famiglie o di enti senza fine di lucro – sia le persone che potevano usufruirne – precari e persone a rischio di esclusione sociale. Insomma, se il disoccupato fa qualche lavoretto di giardinaggio per arrotondare, il buono lavoro fornisce una copertura. La situazione cambia nel 2012, perché si tolgono le delimitazioni sopra ricordate semmai ponendo un tetto massimo annuale di 5mila euro per ogni lavoratore. Il Jobs act porta il tetto a 7mila euro, ma aumenta i vincoli di controllo (es. mandare un sms un’ora prima dell’inizio del lavoro per evitare la copertura ex post). I voucher iniziano a registrare un uso massiccio. Emergono anche casi di abuso, soprattutto in alcuni settori. La Cgil raccoglie le firme per promuovere un referendum abrogativo, ma nel 2017 vengono direttamente aboliti. Il Governo Gentiloni promuove uno strumento utile a salvare il salvabile. Ma ora, col cosiddetto decreto Dignità, la questione torna in auge.
In Italia, negli ultimi anni, ha continuato a svilupparsi il lavoro nero: secondo uno studio Censis – Confcooperative tra il 2012 e il 2015 l’occupazione irregolare è aumentata di oltre il 6%, quindi il voucher potrebbe ridurre tale percentuale. Ma è anche vero che attraverso una misura così, rischia di passare anche dell’altro, per esempio un sistema di precarizzazione. Pertanto la triste scelta pare essere quella del male minore tra due negatività: non regolarizzare queste piccole attività per evitare abusi più grandi oppure regolarizzare queste piccole attività sapendo che si è a rischio di abusi.
Ma forse una strada si può trovare. Per esempio se i voucher fossero finalizzati ad attività sociali o solidali compiute da soggetti del terzo settore o senza fini di lucro, allora il rischio potrebbe limitarsi di molto. Nell’ambito sociale e solidale uno strumento così potrebbe dare sollievo a molte famiglie (si pensi a chi ha in casa un parente dismesso dall’ospedale che necessita di cure per poche settimane), potrebbero regolarizzare le situazioni degli enti che organizzano attività ricreative (es. grest), assistenziali (es. baby sitting), culturali (si pensi alle rappresentazioni teatrali delle piccole compagnie), didattiche (preparazione di esami, di test). La più parte di tutte queste attività sarebbe lasciata senza copertura assicurativa, perché nessuno può permettersi di assumere queste figure per tempi limitati. Senza enfasi e senza pregiudizi la questione è tutta qui: rimarcare il carattere solidale ed occasionale. Se fosse “qualcosa di più” che occasionale, allora occorrerebbe agevolare il percorso per contratti intermedi “più vincolanti”, con meccanismi semplici adatti a soggetti poco strutturati (es. proprio le famiglie). Insomma, ci possono essere “misure” diverse. Se così fosse, allora si potrebbe pensare anche a contratti intermedi per chi beneficia del Rei (reddito di inclusione) e sperimenta alcune forme di lavoro (senza perdere il Rei).
Insomma, al di là delle proposte di merito, c’è qualcosa di più, perché attorno ai voucher, così come è stato il caso dei rider, si è scatenato un ampio dibattito. E ci pare di capire che i voucher pongano ancora una volta il tema delle tutele a favore dei lavoratori più deboli, più precari e il tema dei tempi intermedi, dei contratti che superano la logica novecentesca lavoratore / non lavoratore: ci sono situazioni molto differenziate. La questione da porre è tutta qua: come garantire le tutele e i diritti in un quadro di flessibilità sostenibile? L’attenzione deve spostarsi dal singolo contratto o dal singolo strumento al lavoratore contemporaneo, ai suoi bisogni, alle tutele, ai diritti, secondo un modello che approfondisca la logica delle tutele crescenti e differenti. Se si vuole fare davvero un cambiamento, non ci si può accontentare di discutere solo di uno strumento in sé, perché anch’esso è collocato all’interno di una logica più o meno coerente con altre che – attualmente – convivono nello stesso mercato del lavoro. Magari se ne uscirà con qualche mediazione, ma è evidente che la questione è più profonda. Allora si apra seriamente il dibattito per aggiornare lo statuto di cosa voglia dire essere lavoratore in Italia, nel XXI secolo. Questa è la vera questione. Tutto il resto è di dettaglio.
Roberto Rossini