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REDDITO DI CITTADINANZA

L’introduzione del Reddito di Cittadinanza è stata accompagnata da una serie di perplessità relative alla natura stessa dello strumento che, in modo esplicito, persegue due obiettivi ambiziosi: dare una risposta a quanti vivono in povertà e stimolare l’occupazione con investimenti significativi sulle politiche attive per il lavoro. Sia le Acli che l’Alleanza contro la Povertà in Italia, durante tutto l’iter

legislativo, si sono impegnate per introdurre alcuni essenziali correttivi alla misura. Ciononostante, il provvedimento rimane eccessivamente sbilanciato sulla componente lavoristica, trascurando uno dei principi cardine della lotta alla povertà, ovvero la necessità di un approccio multifattoriale.

Da questo punto di vista, il precedente strumento – il ReI, Reddito di Inclusione – si presentava più

adatto ad affrontare la povertà assoluta, sebbene le risorse destinate siano state significativamente diverse: dai due miliardi di euro del ReI si è passati ai sei miliardi stanziati da questo Governo per il

Reddito di Cittadinanza.

Senza entrare nel merito delle singole criticità della misura, quello che sembra mancare all’impianto

complessivo della norma è la consapevolezza che per contrastare la povertà è fondamentale la costruzione di percorsi di inclusione efficaci. L’erogazione di un sostegno economico, per quanto generoso, non è di per sé sufficiente a combattere l’esclusione (si pensi a situazioni di gravi dipendenze o di disagio mentale). Certamente l’importo deve essere adeguato, ma non può prescindere da prestazioni assistenziali fornite da soggetti competenti che quotidianamente sono a fianco dei poveri e ne conoscono bisogni e difficoltà.

Anche sull’adeguatezza degli importi, proprio in queste ultime settimane, si è riaperto un acceso dibattito. Sembrerebbe infatti che molti beneficiari del RdC, delusi dall’esiguità dell’importo percepito (ben al di sotto dei 780 euro attesi), abbiano deciso di rinunciare alla misura (al momento si parla di 130mila persone). Se al dato sulle rinunce si aggiunge quello relativo alle domande presentate, piuttosto inferiore alle aspettative, a fine anno – secondo le stime dei tecnici del governo – le risorse stanziate e non spese ammonterebbero a 1,6-1,8 miliardi. Un tesoretto che fa gola a molti e rispetto al quale sono state avanzate diverse ipotesi di impiego.

La proposta delle Acli è che gli eventuali risparmi del RdC non vengano dirottati su altri capitoli di spesa, ma siano impiegati per riequilibrare la misura in favore di minori e stranieri, le due categorie sociali maggiormente penalizzate dalla norma.

Tra il 2005 e il 2017 l’incidenza della povertà tra i minori è triplicata, passando dal 3,9% al 12,1% (1 milione e 208mila minori), mentre quella tra le persone ultra65enni è rimasta stabile (intorno al 4,5%).

Il risultato è che oggi, in Italia, 1 povero su 4 è minorenne. Peraltro, la povertà minorile è ereditaria ed ha effetti di lunghissimo periodo: secondo una stima dell’OCSE, ad un bambino che nasce in una

famiglia a basso reddito potrebbero servire cinque generazioni per raggiungere il reddito medio.

Questo significa che nel nostro Pese si sta formando una generazione che molto probabilmente, una volta adulta, non avrà gli strumenti per sottrarsi alla marginalità sociale. Ciononostante, il RdC penalizza le famiglie numerose e i minori: la scala di equivalenza, l’indicatore usato per calcolare l’entità degli importi, attribuisce un peso doppio ad un adulto rispetto ad un minore (0,4 contro 0,2).

Tradotto in cifre vuol dire che un nucleo composto da quattro adulti può arrivare ad un beneficio massimo di 1.330 euro, mentre una famiglia di due adulti e due bambini si ferma a 1.180 euro.

Quanto agli stranieri, che nel nostro Paese sono 1 povero su 3 (contro la media italiana di 1 povero ogni 16), i requisiti di accesso al RdC sono talmente proibitivi che per loro è praticamente impossibile ottenere il beneficio. Anche in questo caso, si tratta perlopiù di minori: il 50% circa dei bambini e dei ragazzi con almeno un genitore straniero è a rischio di povertà. Oltre all’osservanza delle condizioni previste per la generalità dei richiedenti, infatti, la legge stabilisce che gli stranieri siano residenti in Italia da almeno 10 anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo. Inoltre, la richiesta del RdC è subordinata alla presentazione di una “certificazione rilasciata dalla competente autorità dello stato estero, tradotta in lingua italiana e legalizzata dall’autorità consolare italiana” attestante la composizione del nucleo famigliare e il possesso dei requisiti ISEE relativi ai limiti reddituali e patrimoniali, alcuni dei quali non sono però certificabili neanche dagli stati dell’Unione europea.

È chiaro che così come è strutturato il RdC esclude o penalizza una larga fascia di poveri assoluti.

Sono allora fuori luogo ipotesi che, per quanto condivisibili, prevedono usi alternativi del cosiddetto

tesoretto. Interrompere la trasmissione intergenerazionale della povertà: a questo obiettivo andrebbe destinato l’eventuale risparmio del RdC. Per tale ragione la proposta delle Acli è di porre in atto tre semplici correttivi: riequilibrare la scala di equivalenza, attribuendo un peso maggiore ai minori; rimuovere il vincolo dei 10 anni di residenza per gli stranieri, garantendo l’accesso alla misura anche ai titolari di un permesso di lavoro con residenza in Italia da almeno 24 mesi (secondo quanto

previsto dall’art. 41 del Testo Unico sull’Immigrazione), e consentire sempre l’accesso al RdC a  tutte le famiglie straniere con minori nati in Italia (i bambini e i ragazzi che non hanno la  cittadinanza italiana sono 1 milione); valorizzare i progetti di formazione professionale per i minori.

La formazione professionale, è inutile sottolinearlo, andrebbe rafforzata anche per beneficiari adulti del RdC in vista di un loro reinserimento nel mercato del lavoro. Anche da questo punto di vista la misura andrebbe rafforzata.

Il contrasto alla povertà non va fatto selettivamente: la povertà – bianca o nera che sia – va ridotta il più possibile, soprattutto per le famiglie numerose e dunque per i minori. È anche in questo modo che si realizzano politiche di inclusione e coesione sociale.

Roberto Rossini

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