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Impariamo dal 2 giugno

Sono trascorsi 75 anni da quando il referendum del 2 giugno 1946 sancì la fine della Monarchia e la nascita della Repubblica. Ogni elettore ricevette una scheda con due simboli: una corona per la Monarchia; una testa di donna con fronde di quercia per la Repubblica. Fu un referendum significativo per molteplici ragioni: anzitutto, per la prima volta in una consultazione politica nazionale votarono anche le donne; in secondo luogo, l’esito del referendum fu tutt’altro che scontato, tenuto conto che la Repubblica prevalse sulla Monarchia soltanto per 2 milioni di voti. Fu, inoltre, un risultato non poco contestato: fu possibile conoscere il dato ufficiale soltanto il 18 giugno 1946, espletato il controllo dei voti da parte della Suprema Corte di Cassazione. 
L’ultimo (ma non certo in ordine di importanza) articolo della nostra Carta costituzionale, il 139, afferma che “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”, introducendo quello che costituisce l’unico vero limite – esplicito, testuale e di valore assoluto – alla possibilità di modificare il testo della Costituzione. I Costituenti hanno così cristallizzato il principio dell’immutabilità della forma repubblicana, il cui eventuale cambiamento richiederebbe addirittura una nuova Costituzione. In altri termini, la Carta fondamentale, pur aperta a revisioni costituzionali funzionali, non ammette mutamenti di identità. Tra le prime si annoverano le modifiche costituzionali sinora intervenute, alcune delle quali in verità con risultati assai deludenti (si pensi alla riforma del Titolo V), ma anche le riforme mai realizzate di cui da anni si discute (come il superamento del principio del bicameralismo perfetto).
Non è un caso se l’art. 139 è intimamente collegato all’art. 1, che costituisce la carta d’identità del nostro Paese, nonché il contenitore di alcuni dei principi fondamentali della Costituzione repubblicana. Proprio all’art. 1 si individuano quei valori assunti a contrassegno della forma dello Stato italiano, i quali non possono essere soggetti a modifica costituzionale perché, come ha affermato la Corte costituzionale, “appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”. Possiamo dire in generale che i valori fondanti il nostro ordinamento sono la libertà e la dignità, i quali sono confluiti nei tre grandi principi della democraticità, dell’uguaglianza e del pluralismo.
In sintesi, l’art. 1 (da leggere, come si diceva, in combinato disposto con l’art. 139), contiene le seguenti enunciazioni: qualifica come Repubblica lo Stato italiano; precisa che la Repubblica ha natura democratica; ribadisce la democraticità dell’ordinamento, specificando che la sovranità appartiene al popolo; dichiara che la sovranità non è illimitata, ma è esercitata nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione; individua nel lavoro il fondamento della Repubblica. Dalla connotazione democratica origina quella lavorista della Repubblica, il che significa che la dignità dei cittadini non deriva dal censo o dal privilegio (come accadeva nello Stato ottocentesco), ma dal loro diritto-dovere – sancito dall’art. 4 – di svolgere un’attività o funzione al fine di concorrere al progresso materiale o spirituale della società.
In un periodo storico come quello attuale, in cui l’Italia sta finalmente uscendo da una crisi sanitaria e sociale senza precedenti, sono questi i valori che dobbiamo ricordare, soprattutto tenuto conto della necessità di fronteggiare l’emergenza economica e lavorativa che la pandemia ci ha lasciato in eredità.
Che cosa dobbiamo imparare dal referendum del 2 giugno 1946? Quel referendum, all’esito del periodo drammatico delle due guerre e della dittatura fascista, consentì l’avvio di una stagione di compromesso e di pacificazione. Nonostante l’Italia fosse un paese diviso tra monarchici e repubblicani, i primi si adeguarono alla volontà della maggioranza. È proprio questo l’insegnamento che dobbiamo tenere a mente in momento storico in cui, pur con qualche incidente di percorso, il Paese ha dimostrato – e sta dimostrando – una grande unità nell’emergenza. Ma è necessario che gli italiani diano grande prova di unità anche fuori dall’emergenza. Che non significa asettica e acritica adesione alla volontà dei decisori, ma nemmeno sistematico ostruzionismo e contestazione delle regole. Come qualche anno fa ha argutamente sostenuto Michele Ainis, “la democrazia non deve aver paura dei conflitti, perché dai conflitti nascono i diritti. Però nessuna democrazia può sopravvivere in un conflitto permanente, che si estende alle stesse norme costituzionali”.

Alessandro Candido
(Presidente delle Acli provinciali di Piacenza, Avvocato e Docente di diritto pubblico nell’Università Bicocca di Milano)

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