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La dimensione etica del lavoro nell’era del lavoro digitale – Industria 4.0

” La dimensione etica del lavoro nell’era del lavoro digitale – Industria 4.0 ”

Bruxelles

22 – 23 novembre 2017

Introduzione

 Un tema, quello di Industria 4.0, che allude a cambiamenti definiti epocali ma le cui conseguenze già oggi “agitano” le acque del mondo del lavoro.

Cambiamenti che per i lavoratori non sono e non saranno neutri, soprattutto per quelle figure facilmente sostituibili con i processi di automazione che allargheranno ulteriormente la forbice tra le mansioni di basso livello e i lavori che richiedono professionalità elevate. Uno scenario che senza correttivi rischierà di innescare/aumentare le disuguaglianze, producendo forti tensioni sociali e politiche.

  1. La quarta rivoluzione industriale è alle porte.

Con l’espressione “Industria 4.0” (I4.0) si intende oggi un nuovo paradigma industriale che determinerà una rivoluzione paragonabile a quelle che si sono succedute negli ultimi tre secoli. Da più parti annunciata, questa grande novità non impatterà solo sulle fabbriche e su chi vi lavora, ma presto lambirà la vita di tutti noi. “Industria 4.0 è il termine che più frequentemente di altri (smart manifacturing, industria del futuro, industria digitale, manifattura avanzata, industria intelligente, etc.) viene utilizzato per indicare una serie di rapide trasformazioni tecnologiche nella progettazione, produzione e distribuzione di sistemi e prodotti. In particolare, descrive l’organizzazione di processi produttivi basati sulla tecnologia e su dispositivi che comunicano tra di loro[1]”. In questa “quarta rivoluzione industriale” non si ha una singola tecnologia abilitante ma un insieme di tecnologie che vengono aggregate grazie al cosiddetto Internet delle cose, in sigla IoT (Internet of Things): in poche parole, l’intelligenza artificiale diffusa negli oggetti che, grazie alla rete, sono messi in comunicazione fra loro e con l’uomo. L’IoT è l’evoluzione di Internet: gli oggetti (le “cose”) si rendono riconoscibili e acquisiscono intelligenza grazie al fatto di poter comunicare dati su se stessi e accedere ad informazioni aggregate da parte di altri – come le sveglie che suonano prima in caso di traffico, le scarpe da ginnastica trasmettono tempi, velocità e distanza per gareggiare in tempo reale con persone dall’altra parte del globo. Proprio l’applicazione dell’IoT, attraverso la creazione di Cyber-phisical Systems (CPS)[2] all’interno della produzione industriale è la chiave dell’Industria 4.0.

Le altre tecnologie abilitanti che compongono questo complesso quadro di innovazione sono i robot collaborativi interconnessi e rapidamente programmabili, i big data[3], il cloud computing (accesso a risorse non tramite un server, ma un gruppo distribuito di server interconnessi, “la nuvola”, che gestiscono servizi, eseguono applicazioni ed archiviano documenti in modo totalmente trasparente all’utilizzatore), la realtà aumentata e cioè l’arricchimento della percezione sensoriale umana mediante informazioni, in genere manipolate e convogliate elettronicamente, a supporto dei processi produttivi, le stampanti 3D connesse a software di sviluppo digitali, ecc. Tutto questo, applicato al settore manifatturiero, produce la cosiddetta manifattura digitale dove la separazione rigida tra parte reale e parte digitale viene meno.

La catena di montaggio è considerata come un flusso integrato immaterialmente grazie alle tecnologie digitali. Tutte le fasi sono gestite e influenzate dalle informazioni rilevate, comunicate e accumulate lungo tutta la catena: la connessione tra oggetti attraverso internet è resa possibile dalla disponibilità di sensori e attuatori (congegni in grado di collegare la componente digitale con quella meccanica degli oggetti) sempre più piccoli, dalla presenza di connessioni a Internet a basso costo e pressoché ubique. Non saranno più le macchine a creare il prodotto, ma il prodotto a dire alla macchina come e cosa deve produrre. Meglio ancora, ci sarà un “dialogo” costante in tempo reale tra la macchina e il prodotto/servizio.

Nel 2030 si stima che più di 100 miliardi di sensori collegheranno l’ambiente umano e naturale in una rete globale intelligente e distribuita. La natura di questa rivoluzione tecnologica implica che il confine tra manifattura e servizi divenga sempre meno netto, con un crescente coinvolgimento delle imprese manifatturiere in attività di servizio: i sistemi produttivi evolvono verso i modelli cyberfsici e i modelli di business verso modelli industriali di servizio. La vendita del prodotto e l’assistenza, ad esempio, saranno collegati in maniera molto più stretta grazie al ricorso alla manutenzione predittiva e al monitoraggio delle performance.

Il settore manifatturiero italiano, il secondo più importante in Europa e il settimo a livello mondiale, rappresenta il 15% del PIL nazionale, con un fatturato di circa 900 miliardi di euro. Ciò fa sì che Industria 4.0 rappresenti per l’Italia una strada “obbligata” per garantire l’innovazione di alcuni dei prodotti più competitivi del sistema quali l’industria aeronautica e aerospaziale, la farmaceutica, la meccanica e l’automotive.

La risposta italiana a questa sfida si chiama Piano Industria 4.0, un programma siglato dal Ministro per lo Sviluppo Economico Carlo Calenda che prevede, in linea generale, il rilancio degli investimenti industriali, con particolare attenzione a quelli in ricerca, sviluppo e innovazione. In Germania il documento base è intitolato Platform 4.0  ;   in Francia : L’industrie du Futur ;  nei  Paesi Bassi : Smart Industry .

Secondo la letteratura esistente i benefici collegati a I4.0 sarebbero diversi e raggruppabili nei seguenti punti:

  • Flessibilità e innovazione
  • Maggiore produttività
  • Maggior rispetto dell’ambiente
  • Centralità del consumatore
  • Back-reshoring.

Queste cinque traiettorie di sviluppo saranno condizionate delle diverse realtà produttive.

Una simile trasformazione, occorre ribadirlo, non riguarda solo la sfera produttiva ed economica, ma investe profondamente la sfera sociale e culturale costringendo tutti noi a cambiare passo. Prima di accelerare, però, bisogna avere ben chiaro dove si va, cercando di guardare con le giuste lenti tutto ciò che si pone davanti durante il cammino. In primis è opportuno chiedersi come cambierà il lavoro e quali saranno le possibili conseguenze per le persone che di questo lavoro dovranno vivere.

  1. Come cambia il lavoro con l’Industria 4.0?

Alla luce delle innovazioni prima elencate, le conseguenze sul mondo del lavoro si verificherebbero su due livelli tra loro profondamente connessi. Il primo è di tipo pratico, e riguarda le mansioni, gli orari, i luoghi di lavoro e le competenze del lavoratore. Con l’introduzione dell’IoT la catena di montaggio non necessiterà più dell’apporto dell’operaio per operazioni meccaniche, ma solo per attività di settaggio dei macchinari e di problem solving. Da questo emerge che il ruolo dell’operaio semplice viene meno – e quello dell’operaio specializzato, la white collar, si riduce a poche mansioni che portano con loro un altissimo tasso di responsabilità. Per consentire la piena personalizzazione del prodotto sono necessari lavoratori che, potenzialmente per ogni ciclo produttivo, impostino i complessi macchinari al fine di ottenere quanto desiderato dal cliente. Allo stesso tempo, essendo le macchine sempre soggette ad errori, bug[4] o altre tipologie di ostacolo alla produzione, l’operaio deve essere in grado di affrontare questo genere di problematiche per non bloccare l’intero processo produttivo. La logistica interna allo stabilimento non verrebbe più gestita manualmente dall’operaio ma da robot in grado di sollevare pesi maggiori; resterebbe all’operaio il compito di impostare il sistema informatico che si occuperà poi di gestire automaticamente lo stoccaggio del materiale nel modo più efficiente[5]. Inoltre, essendo la produzione gestita virtualmente, nulla impedirebbe ad un lavoratore di controllarla, grazie al proprio computer di casa o il proprio smartphone, quando si trova in un altro luogo. La flessibilità della produzione insieme alla diversa natura della domanda da parte dei consumatori, potrebbe consentire orari di lavoro più flessibili e la possibilità di lavorare a distanza.

Il secondo cambiamento, più a lungo termine ma già in atto, riguarda l’introduzione di un nuovo paradigma del lavoro e la crisi dei vecchi paradigmi fordisti e post-fordisti della proprietà dei mezzi di produzione e della subordinazione.

Con la diffusione delle nuove tecnologie ognuno possiede da sé i mezzi per poter lavorare e se viene meno la dipendenza del lavoratore dai mezzi di produzione dell’imprenditore inizia a vacillare la stessa idea di lavoro subordinato: esso, per essere tale, richiede la presenza del lavoratore nel luogo di lavoro e negli orari fissati. Il fatto che la maggior parte delle attività lavorative possa essere svolta attraverso uno strumento elettronico connesso alla rete e che attraverso la tecnologia cloud si possa entrare in possesso e modificare le informazioni necessarie per svolgere la propria attività, ha senz’altro una portata rivoluzionaria, e determina la nascita di figure che non possono essere chiaramente qualificate né come lavoratori dipendenti né come lavoratori autonomi. Questa “zona grigia” richiede una adeguata riflessione da parte del legislatore e non solo. Occorrono politiche del lavoro e sociali, ma anche interventi da parte dei sindacati e delle organizzazioni datoriali che sappiano dare cittadinanza, e dunque un nuovo orizzonte di tutele e diritti, ai lavoratori 4.0.

  1. Catastrofisti o tecnoentusiasti? Alcune questioni dirimenti.

L’innovazione tecnologica è da sempre un fattore cruciale di cambiamento dei sistemi sociali e delle organizzazioni. Internet in primis ha rivoluzionato il nostro modo di vivere, di comunicare, di lavorare, di pensare. Ha portato alla nascita di grandi imperi della new economy, i cosiddetti FANGS: Facebook, Amazon, Netflix, Google, e a un numero crescente di aziende di piccole dimensioni che stanno manifestando il loro effetto disruptive su interi settori dell’economia e dei servizi. Proprio a tal proposito è lecito porsi alcune domande, senza necessariamente mettersi in contrapposizione col progresso tecnologico, ma cercando piuttosto di individuarne i limiti o gli “effetti collaterali” da evitare e ponendo al centro l’interesse per i lavoratori.

In questi ultimi decenni la tecnologia cosa ha portato in termini di progresso, di occupazione e di produttività? Si è sempre rivelata generatrice di crescita e ricchezza per tutti? Ha prodotto maggiore uguaglianza?

Con il nuovo rapporto uomo-macchina, l’operaio sarà realmente più integrato oppure assisteremo ad una nuova ed inedita forma di alienazione?

Riprendendo ancora le parole di Illich: “Solo ribaltando la struttura profonda che regola il rapporto tra l’uomo e lo strumento potremo servirci degli strumenti che sappiamo costruire. Lo strumento veramente razionale risponde a tre esigenze: genera efficienza senza degradare l’autonomia personale, non produce né schiavi né padroni, estende il raggio d’azione personale. L’uomo ha bisogno di uno strumento col quale lavorare, non di un’attrezzatura che lavori al suo posto. […] Il dogma della crescita accelerata giustifica la sacralizzazione della produttività industriale, a spese della convivialità. La società che ne risulta, recisa dall’intenzione personale, ci appare di conseguenza come una «danza della morte», uno spettacolo d’ombre produttrici di domanda e generatrici di carenza”.

Senza essere catastrofisti, vogliamo porre l’accento sul fatto che senza un’opera di ripensamento anche della logica che sta dietro all’istituzione industriale vecchio stampo (dogma della crescita accelerata a scapito delle relazioni umane) sarà difficile anche solo immaginare una nuova centralità della persona e una tecnologia realmente funzionale alla sua realizzazione professionale e umana. In questo passaggio un ruolo importante è affidato alle istituzioni politiche che devono prevedere e accompagnare un simile processo affinché non si sviluppi in maniera meccanicistica, a scapito dei lavoratori. Così come altrettanto importante sarà la presenza e il ruolo di pungolo e critica della società civile e delle organizzazioni dei lavoratori.

  1. Sapremo governare il cambiamento?

Il grande disaccoppiamento. Con questa espressione due studiosi del MIT di Boston, Erik Brynjolfsson ed Andrew McAfee, in un saggio del 2011 intitolato Race against the Machine, analizzarono l’andamento delle curve della produttività e dell’occupazione a partire dal secondo dopoguerra: queste, se prima avevano seguito uno sviluppo più o meno parallelo, negli ultimi vent’anni hanno cominciato a registrare andamenti diversi per cui la prima ha continuato a crescere e la seconda è avanzata a stento accrescendo la forbice. Lo studio dei due scienziati, avvalorato dal fatto che provenisse dal tempio della tecnologia, ha contribuito a mettere in crisi il mito del progresso tecnico che distrugge posti di lavoro per crearne dei nuovi, migliori: l’inizio del disaccoppiamento infatti corrisponde al momento storico che segna la nascita della cosiddetta New Economy.

Al di là dei possibili scenari un aspetto comunque è certo: Industria 4.0 avrà un enorme impatto sul mercato del lavoro e sulle transizioni professionali, e, non ultimi, sui sistemi di welfare. Le occupazioni che richiedono minore competenza di percezione e manipolazione, intelligenza creativa e intelligenza sociale saranno le prime ad essere sostituite da una qualche forma di intelligenza artificiale[6]. Per questo più che lanciarsi in una lotta contro le macchine, i due citati studiosi del MIT propongono di imparare a convivere con le stesse: “Le nostre tecnologie si stanno evolvendo sempre più in fretta, mentre le nostre competenze e le nostre organizzazioni rimangono indietro. Ecco perché è urgente capire questi fenomeni, discuterne le implicazioni e trovare delle strategie che permettano ai lavoratori umani di mettersi in gioco insieme con le macchine anziché gareggiare con esse”.

Per gestire il cambiamento saranno necessari nuovi interventi da parte delle politiche pubbliche e una nuova forte attivazione da parte della società civile.

Nuovi sistemi di sicurezza sociale. È evidente che alla nuova politica industriale 4.0 non può non affiancarsi un serio lavoro di ridefinizione delle tutele sociali in grado di costruire una nuova stabilità all’interno dei cosiddetti “mercati transizionali”. Occorre un nuovo quadro di tutele dei percorsi professionali destinati ad essere meno lineari e sempre più discontinui, soprattutto per i giovani, i lavoratori poco qualificati e quelli più “anziani” e, in generale, per coloro che si troveranno fuori dal mercato del lavoro e non riusciranno in tempi brevi a riqualificarsi a causa del drastico innalzamento dei livelli di competenze richiesti.

Nuovo modello di contrattazione. Nel dibattito sull’evoluzione dell’organizzazione del lavoro nel terzo millennio e sui modelli di relazioni industriali più idonei a sostenerla, alcuni osservatori sostengono che la fabbrica diventerà il luogo della sperimentazione e del ridisegno di un nuovo assetto delle relazioni industriali. In primis la dimensione conflittuale non sarebbe più la relazione dialettica dominante poiché metterebbe a serio rischio l’efficienza della produzione. Dal canto loro i lavoratori, grazie alla loro nuova centralità, acquisterebbero più potere di quanto ne avessero in passato e avrebbero interesse alla propria formazione ed evoluzione professionale, che coincide con la possibilità di alti salari e maggiore forza contrattuale. La condivisione degli obiettivi da parte dei lavoratori porterebbe allo sviluppo di un sistema partecipativo di relazioni industriali caratterizzata dall’individuazione del buon andamento dell’impresa come obiettivo comune ad entrambe le parti. Nel dibattito attuale si evidenzia anche la necessità di pensare a nuove forme di contratto, in risposta al nuovo paradigma che la quarta rivoluzione industriale impone: nelle declaratorie dell’inquadramento unico del contratto metalmeccanici (che risalgono al 1973) non sono riscontrabili profili simili a quelli richiesti da una trasformazione così profonda. Nel dibattito contemporaneo emerge il ruolo sempre più cruciale della cosiddetta contrattazione di prossimità secondo la convinzione che non si potranno più affrontare a livello nazionale, e in certi aspetti neanche a livello territoriale, molti dei contenuti dei contratti: in particolare specifiche mansioni e questioni relative alla produttività.

Le competenze e quindi la formazione dovranno diventare un elemento centrale nella contrattazione, in un mercato del lavoro che richiede un aggiornamento continuo!!

Documento preparato dal Dipartimento Lavoro delle ACLI

[1] Indagine conoscitiva su Industria 4.0, documento conclusivo, X Commissione Permanente attività produttive, commercio e turismo, 30 giugno 2016.

[2] Un sistema ciberfisico o ciber-fisico (CPS, dall’inglese cyber-physical system) è un sistema informatico in grado di interagire in modo continuo con il sistema fisico in cui opera.

[3] Volumi di dati talmente grandi che è difficile processarli utilizzando le tecniche tradizionali per i database. Essi consentono alle aziende di migliorare le operazioni e arrivare alle decisioni più velocemente, e con maggior cognizione di causa.

[4] In informatica, l’errore di funzionamento di un sistema o di un programma.

[5] Seghezzi F., Come cambia il lavoro nell’ Industry 4.0?, WP Adapt, 23 Marzo 2015, n.172.

[6] Staglianò R., Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro, Einaudi, 2016.

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