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Le Cinque Italie

Il report “Le Cinque Italie”, elaborato dalla Presidenza nazionale ACLI, dai principali servizi del sistema ACLI e dall’istituto di ricerca IREF, offre una mappa delle trasformazioni economiche e sociali dei territori, considerando gli effetti di lungo periodo della fase di depressione vissuta dalla nostra  economia. L’obiettivo è stato quello di favorire una maggiore conoscenza delle caratteristiche che  contraddistinguono le comunità all’interno delle quali le ACLI offrono i propri servizi. per poter operare in modo sempre più contestualizzato, intelligente e socialmente utile.

Le Cinque Italie

La nostra è una nazione estremamente diversificata a livello territoriale e l’aggregazione di singole province in gruppi o macro-aree non è mai un’operazione priva di conseguenze: si corre sempre il rischio di semplificare o di attenuare troppo le differenze tra una realtà locale e l’altra. L’unica via percorribile per evitare di uniformare questa geografia composita in rappresentazioni rigide e schematiche è quello di considerare il maggior numero possibile di informazioni sull’ambito locale. La ricerca propone una suddivisione del nostro paese in cinque gruppi di province, ciascuno abbastanza omogeneo al proprio interno, con tratti comuni rispetto ad un’ampia gamma di fattori economici e sociali.

Nel Settentrione emergono tre aree con un profilo ben delineato: i poli dinamici (9 province) caratterizzati da una crescita asimmetrica; le comunità prospere (13), nelle quali si riscontra un migliore equilibrio sociale e, perciò, un benessere diffuso; i territori industriosi (40) disseminati a macchia di leopardo nelle regioni del Nord dove, tra luci ed ombre, si oppone una strenua resistenza al progressivo declassamento del paese. Scendendo verso Sud il panorama muta decisamente: fatto salvo il caso estremo di Roma (allineata per molti aspetti ai poli dinamici) vi è una fascia di province centrali che, insieme alla Sardegna e ad alcune province meridionali, ricadono nel gruppo dei territori depressi (25) che subiscono un lento declino sociale; infine il gruppo del Sud fragile (23 province meridionali) che, complice la recessione, versa in una condizione di profondo disagio.

Piacenza, assieme a Milano, Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna, Ravenna, Rimini e Roma, si colloca nel primo gruppo dei poli dinamici. Piacenza è un nodo centrale per la logistica, essendo vicina a molte aree industrializzate della pianura padana: a sud del capoluogo di provincia si sono insediati gruppi del calibro di Ikea, UniEuro e Italiareddo; quest’area si candida inoltre ad essere la piattaforma di smistamento delle merci provenienti dal porto di La Spezia; a Castel San Giovanni hanno aperto i loro stabilimenti la Conad, Bosch, LG Elettronics ed Amazon; a Monticelli d’Ongina si sono invece acquartierate Whirpol ed Enel. Il territorio piacentino sta così diventando uno degli hub più importanti del Settentrione, oltre ad ospitare un buon numero di piccole e medie imprese autoctone nel ramo manifatturiero, con punte di eccellenza nella robotica e nell’automazione.

Questi territori non sono dinamici solo dal punto di vista economico. Anche la loro demografia è tutt’altro che statica: le province di questo gruppo registrano un valore particolarmente alto e positivo nel saldo migratorio ogni mille abitanti, sia con le altre regioni d‘Italia (1,9 contro -0,4 nel totale delle province), sia con l’estero (1,6 contro -0,2); ciò vuol dire che tali aree richiamano più persone provenienti da altre regioni/nazioni di quanto non ne lascino uscire dai propri confini amministrativi. In altre parole esse rappresentano delle mete di destinazione (non dei luoghi di invio) dei flussi migratori. Questa forza attrattiva emerge con chiarezza anche dal dato sull’incidenza percentuale degli stranieri sul totale della popolazione, quasi il doppio di quella che si rileva nella totalità della nostra Penisola (il 12,7% a fronte del 7,6%). Si tratta di un fattore di progresso per le comunità territoriali indagate, al contrario di quanto sostengono coloro che non si stancano di soffiare sul fuoco dell’allarmismo. In realtà i migranti (i profughi come coloro che espatriano in cerca di fortuna) non entrano quasi mai in concorrenza con i nativi; si fermano dove trovano delle opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita. I poli dinamici sono una buona alternativa ai paesi dell’Europa del nord: nell’industria come nel terziario non avanzato (edilizia, ristorazione, settore alberghiero) vi è evidentemente una domanda di manodopera

non qualificata che viene colmata da quei lavoratori che vengono da lontano. In questi luoghi non si scatena pertanto una lotta intestina per un bene scarso come l’occupazione: vi è spazio per i nostri concittadini come per gli stranieri, per un motivo intuibile. La base produttiva è in aumento costante e si creano nuove occasioni sul mercato del lavoro, tanto per i profili alti, quanto per quelli bassi. Su questo fronte non vi è differenza tra le zone industrializzate del milanese o emiliane e analoghi contesti tedeschi, olandesi o francesi. In genere dove l’economia funziona non si innescano conflitti sociali e anche la convivenza diventa più agevole.

Ciò non esclude che in queste province si possano diffondere sentimenti di ostracismo nei confronti degli immigrati, in parte perché la diffidenza verso questi ultimi prescinde dal fatto di sentirsi minacciati per il proprio status sociale ed economico; in parte perché il modello di sviluppo non è del tutto equilibrato. Vi sono italiani che non beneficiano della ricchezza prodotta a livello locale; è proprio in questi strati sociali in difficoltà che può fare presa la xenofobia. Non è difatti semplice vivere ai margini di territori sviluppati, in quartieri popolari o periferici, dove la precarietà dei vissuti si associa a condizioni di degrado. Il risentimento può montare quando si allargano le

distanze con chi sta meglio, soprattutto in zone dove l’economia è un fattore trainante.

Sotto questo profilo, è indicativo che proprio nei poli dinamici sia aumentata di più la diseguaglianza tra cittadini ricchi e poveri negli anni della crisi (2008-2015): 7,6% a fronte del 4,3% nella totalità delle province. Non è dunque infondato parlare di crescita asimmetrica: la disparità sociale si manifesta in quelle aree del paese in cui è più vigorosa la spinta propulsiva dei mercati. E poi anche l’angoscia per la sicurezza non è del tutto immotivata: i furti ammontano al 3,4% in più rispetto alla media nazionale.

Sono diversi perciò i sintomi del malessere strisciante che affiorano dal corpo sociale delle province più dinamiche d’Italia: il fatto che la ricchezza finisca in poche mani (non le proprie); l’incertezza economica che può subentrare all’improvviso, magari perché si è fatto un passo più lungo della gamba, diventando insolventi nei confronti di una banca; la criminalità comune che rende insicure le strade del quartiere in cui si vive. L’indice di disagio sociale è più basso della media nazionale (161,6 a fronte di 181,6), ma con un punteggio comunque più alto delle altre aree del nord. Si deve inoltre riflettere sul fatto che la sofferenza sociale non è trascurabile in queste aree provinciali, pur in presenza di un solido welfare locale: la spesa sociale dei comuni per minori, anziani e poveri è stata di 64,1 euro nel 2015, con quasi ventitré euro di surplus rispetto al resto del paese; la copertura dei servizi per l’infanzia è quasi doppia in rapporto a quella della media nazionale (rispettivamente

24,3% e 12,4%); le apparecchiature biomedicali per diecimila abitanti sono piuttosto diffuse (27,6 contro 25,4). Una rete di assistenza socio-sanitaria così fitta non sembra però riuscire a tamponare gli effetti indesiderati di una crescita disarmonica.

Roberto Agosti

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